Era nato vetturino, mestiere di famiglia da generazioni. Era vetturino dalle fasce. Nel suo dolce accento ligure mi diceva che non c’era gioco che lo attraesse altrettanto; quando poteva arrampicarsi a cassetta e accarezzare con gli occhi la groppa dei suoi cavalli era un bambino felice.

 

(testo di Federico Romiti della Centuria, chirurgo, di Gaggio/BO – foto di Giorgio Negri di Scandiano/RE)

 

I primi ricordi di questo uomo per bene che io considero ‘l’ultimo auriga’ risalgono ai primi anni ‘70 del secolo scorso, che per le nuove generazioni sono un tempo indefinito in un lontano passato, ma per noi ormai ottuagenari rappresentava allora la prima maturità.

Io appartengo ancora alla generazione non tecnologica, pervicacemente anticibernetica dei rapporti personali a viva voce e non per la nuova via satellitare anonima e freddamente magnetica. Non “twitto”. Facciamo parte di quelli che si ricordano ancora quel mondo dei barocciai che avevano vissuto da bimbi, un mondo pre-televisivo, attualmente definitivamente morto. Di quando i trasporti e i traslochi, anche per distanze impegnative, venivano eseguiti dagli -allora- immensi vagoni della Gondrand trainati da boulonnais, da ardennesi o da cremonesi da 8 quintali. Un paziente ed inaffondabile artiere marciava di fianco tenendo il cavallo di testa con una breve longia a mano, munito di pesanti scarponi ferrati che strisciavano sui pavé e sulle strade allora solo ghiaiate, che si poneva così, democraticamente, alla stessa stregua dei suoi quadrupedi, a piedi come i suoi cavalli, di stallo in stallo per trenta km al giorno.

Neanche la via Emilia era asfaltata e la ghiaia necessaria per la pavimentazione era cavata dai vari fiumi che intersecava e trasportata da migliaia di barocciai, che negli anni si trasformeranno in camionisti. A Londra la birra era trasportata tutta in enormi botti trainate da Suffolk Punch. Ora di tutta quella vorticosa realtà di trasporti urbani che avevano frequentemente attratto l’interesse di fotografi e artisti come Toulouse-Lautrec  rimane solo qualche mesta botticella, in indolente attesa di qualche raro turista.

 

Edgar Degas – At the Races – 1877-1880 – Musée d’Orsay

 

Henri de Toulouse-Lautre – Dog-Cart – 1880

 

I cavalli da carrozza avevano raggiunto una selezione oggi inimmaginabile, erano i tempi in cui un Lord poteva permettersi di scommettere col principe Demidoff di vincere una corsa coi cavalli tolti alla sua vettura e vincere.

Non mancavo mai ad un appuntamento alla Fiera a Verona ed Egisto era allora alla mia età di oggi, l’ultimo dei Mohicani, che persisteva a mantenere viva una tradizione millenaria che stava per diventare evanescente e poi scomparire per sempre, con carrozze, carri e cavalli ingoiati dalla prepotenza del motore, fagocitati dal mondo dei jet.

Per qualche decina di anni carrozze e auto, carri e camion hanno convissuto, come la balestra con l’archibugio su due piani embricati; il carro ha tenacemente resistito, per poi cedere di schianto negli anni ‘60. In quegli anni in tutta Modena ricordo due ardennesi con zoccoli come padelle, uno di fronte alla stazione e uno di servizio per i vicoli più stretti, intento a caricare detriti in quel vicolo in pieno centro che mantiene ancora il nome medievale e significativo di “Vicolo Squallore”. Nessuno si sarebbe allora immaginato un TIR. Allora erano invece ancora presenti i TPR, i “Tiro Pesante Rapido”, gloria padana, derivati in buona parte dal cremonese. Nessun cavallo, a passo,  supera l’andatura del TPR.

Durante lo spettacolo serale della Fiera di uno di quegli anni ’70, vidi entrare nell’arena quasi oscurata una “barra”, cioè un enorme carro a due ruote, trainata da due stalloni Franches Montagnes in tandem, illuminata da una fioca lanterna a petrolio che ciondolava ritmando i passi dei cavalli. Era una barra pesante lunga 3 o 4 metri di quelle che venivano  utilizzate per il trasporto dei cereali; sembra impossibile ora, dato che già circolavano camion, ma nel dopoguerra il trasporto dei cereali dal porto di Genova verso la val Padana avveniva ancora anche con le barre ed Egisto mi raccontava come sul passo dei Giovi dovesse essere aggiunto un cavallo a bilancino per aiutare nelle erte più ripide.

 

Egisto Venturini

 

In serpa a quella barra sedeva un ometto secco con un cappello nero, e la divisa tipica del barocciaio, fazzoletto rosso a pois al collo e fusciacca per sostenere il ventre nel sollevamento dei pesi. A volte anche uno “spolverino”. Era Egisto Venturini, come conobbi tempo dopo. Per decenni non mancò mai di manifestare ogni anno la sua abilità con le redini lunghe alla Fiera, accompagnato dall’inseparabile Ghilo, la sua ombra muta, fedele e composta. Ghilo non l’ho quasi mai sentito parlare in tanti anni, solo a volte accennava con gli occhi un mite sorriso di partecipazione all’argomento.

Il loro sponsor era Vittorio Ortalli, il facoltoso imprenditore che ha importato in Italia gli utili Franches Montagnes, che li assumeva immancabilmente per le manifestazioni equestri, a Reggio, a Verona, dove con un tiro a quattro di stalloni con un enorme carro con 4 botti, mettevano in evidenza tutta la loro destrezza giostrando nella baraonda della folla. Per sottolineare le grandi doti di carattere, di attitudine e di maneggevolezza di questi stalloni Franches Montagnes si deve anche dire che per mancanza di personale venivano attaccati in quelle sole occasioni e non hanno mai dato problemi di performance in mezzo a folle e rumori assordanti.

 

Ritorno al passato a Verona 2019

 

A Verona Egisto e Ghilo gareggiavano in abilità con Adriano Bondi, di Sala Bolognese, che ho visto a 82 anni serpeggiare in impossibili slalom con un tiro di ungheresi grigi al galoppo. Bondi era un omone imponente a cassetta, i baffi gli si rizzavano come vibrisse mentre la sua frusta faceva echeggiare schiocchi secchi come castagnole sotto le capriate dell’arena. Morì l’anno dopo, ma a cavallo come si conviene ad un cavaliere.

La “barra” è stata il veicolo di trasporto merci più usato nei secoli. E’ un termine di origine longobarda, lo stesso dell’inglese “bar”, che voleva dire “stanga”, che a sua volta è di origine gotica, a sottolineare che molti termini di equitazione li dobbiamo a questi nostri padri collaterali. Ne derivano “baroccio” (filologicamente sarebbe più esatto barroccio, cioè piccola barra), più esiguo, per uso locale e contadino, “barretta”, ad uso rurale, e “baracchina” il calesse che usava il “reggitore”, cioè il patriarca della famiglia contadina, quando andava al mercato.

Negli anni ’30 erano ancora in uso carovane di “barre” per il trasporto di merci più varie. Ricordo una mia infermiera, di pochi anni più anziana di me, che nacque per caso a Sala Consilina, in provincia di Salerno, dove la madre, gravida a termine, aveva tranquillamente seguito la famiglia su di un carro, in una carovana da Far West che era partita da Asti per caricare il cuoio fornito dalle bufale e dalle concerie campane.

A Verona, passavo giornate intere con Egisto e non mi stancavo mai di sollecitarlo a raccontarmi episodi della sua vita di “vetturino”. Non era in genere un “cocchiere”, anche se spesso lo vediamo in qualche foto agghindato come un dandy londinese fine ‘800, in occasione di qualche fastosa cerimonia. Preferiva la “barra” alla “Victoria”, o ai lussuosi “landau”.

 

Cavallo Franches Montagnes, pronto a mettersi in movimento al minimo segnale di Egisto

 

Era nato vetturino, mestiere di famiglia da generazioni. Era vetturino dalle fasce. Nel suo dolce accento ligure mi diceva che non c’era gioco che lo attraesse altrettanto; quando poteva arrampicarsi a cassetta e accarezzare con gli occhi la groppa dei suoi cavalli era un bambino felice. Iniziò prima dell’adolescenza a trasportare vino con botti da 10 quintali dal porto alle varie  bettole di Genova, raffinando la sua arte per tutti i carruggi, che come si sa sono malagevoli, stretti e tortuosi e oltretutto in salita e malagevole ancor più è la discesa, dato che spesso i freni erano quasi astratti; sopperiva l’imbraga del “pio e lento” quadrupede che la consuetudine giornaliera trasformava in un animale domestico, un amico possente che ubbidiva alla voce, al minimo sibilo e tornava a casa da solo.

Era solito partecipare anche alla sfilata dei carri di Ivrea, città che non dimentica le sue origini, dato che fu fondata dai Celti, che la nominarono Eporedia, che significa “la-città-delle-ruote–dei-carri”. In epoca longobarda il nome fu deformato in Eborgia ed era città eminente, sede di una zecca e avere diritto di conio era prerogativa delle città principali.

Egisto mi inoculò il virus degli attacchi. Comprai una Victoria e poi andai fino a Genova per prendere uno dei suoi ultimi carri: fu solo un tentativo che sapevo molto arrischiato, come piantare un pioppo nelle sabbie e che inevitabilmente naufragò. Il carro finì mestamente in un museo. Gli attacchi non sono più praticabili in questo mondo sempre più motorizzato, al primo incrocio già si rischia che il solito motociclista dopato dalla velocità ti trinci il cavallo in due nel tentativo quotidiano di imitare Valentino Rossi.

 

La mia carrozza, una “Victoria” di fine ‘800. Sui mozzi d’ottone ben evidente il nome del fabbricante: Alfred le Jeune, Paris. Era l’epoca di Claude Monet e di Toulouse-Lautrec e “les belles cocottes” callipigie lasciavano la loro impronta sui sedili foderati di velluto verde malva

 

Era un carro di modeste dimensioni ma a 4 ruote con un attrezzo infernale che si chiama ralla, una ruota fissa col timone all’asse anteriore. Solo chi l’ha usata e chi ha guidato un camion rimorchio conosce la difficoltà di usare la ralla in retromarcia. Ho visto Egisto usarla con una maestria da violinista. Al rientro dal solito giro di propaganda per la Fiera, il carro rientrava ai box e doveva essere posteggiato in un angolo del vasto capannone.  Con una perfetta manovra in retromarcia che fra i passanti sarebbe stata difficile anche con una 500, con abili tocchi di redini, con voce suadente e calma, il carro con le 4 botti retrocedeva fino ad un palmo da una parete e uno dall’altra, perfettamente allineato. Egisto scendeva soddisfatto e procedeva a togliere i finimenti.

 

Quattro stalloni Franches Montagnes per trainare 4 pesanti botti

 

Egisto se ne è andato, in silenzio, ha salutato togliendosi l’elegante cappello a cilindro, e con lui tutto il suo mondo. Mi sento però di dire che oggi il mondo delle comunicazioni interplanetarie è di certo più comodo, ma si avverte nettamente la sensazione che ci manca la sua signorilità di vecchio barocciaio.