Le macchine per mietere a trazione animale nelle campagne italiane dell’800
Anche in questo 2023 l’estate è in arrivo e con essa agricoltura e agricoltori si risvegliano dai torpori invernali per iniziare le consuete attività agricole. Attività le quali, forse a causa di questi ultimi anni costellati da virus e guerre-commerciali, hanno preso due direzioni opposte: una prettamente iper-tecnologica con sensori, robot e micro-chip che scorazzano liberi per i campi mentre l’agricoltore è seduto sul divano impugnando uno smartphone, l’altra tendenza invece è tipica dell’economia dei castelli medievali con la piccola popolazione esistente intenta a lavorare i terreni con gli animali e il sudore della fronte, per il fabbisogno della comunità. Le informazioni che ci arrivano dai tanti “maghi-espertologi” che popolano il web non riescono a darci utili indicazioni sulla giusta strada da seguire e in tanti non riescono a capire se alla fine della “fiera” e della “filiera” incassa più euro chi lavora e suda nei campi o chi chiacchiera in giacca e cravatta sul web!
In attesa che i tempi maturino di pari passo con le coscienze, andiamo ad informarci meglio riguardo i primi passi che l’essere umano fece per alleviare le disumane fatiche dei lavoratori della terra. Ad illuminarci con l’interessante articolo che segue uno dei massimi esperti di settore italiani: Piergiorgio Laverda.
LE MACCHINE PER MIETERE NELLE CAMPAGNE ITALIANE DELL’OTTOCENTO
A cura di PIERGIORGIO LAVERDA (Storico della meccanizzazione agricola)
“La meccanica nel suo rapido progresso offre alle industrie apparecchi, congegni e strumenti perfezionati, né di questi avareggia anche per l’agricoltura. Ed invero eccellenti macchine ed ottimi strumenti rurali si hanno ora in larga copia da sostituire ai rozzi e imperfetti congegni a noi legati dagli avi. In mezzo a questa lotta febbrile di concorrenze che impaurano anche gli agricoltori, fra queste imponenti gare dei commerci internazionali pei prodotti del suolo, è imperioso il bisogno di utilizzare come si possa meglio tutte le forze motrici della natura; di risparmiare penosi lavori agli operai, che così meglio applicheranno a quelli in cui più intelligenza che muscoli si richiedono; di meno affaticare gli animali; di fare tesoro del tempo; d’immegliare la qualità ed accrescere la quantità dei prodotti agrari. Ora appunto a soddisfare questo bisogno provvede la meccanica agraria”
(Tratto da “I depositi governativi di macchine agrarie”, Roma 1883)
Il serrato confronto tra tecnici nordamericani e inglesi
Alla metà del diciannovesimo secolo il sogno dell’uomo di raccogliere il grano con una macchina, sostituendo il durissimo lavoro dei mietitori, era oramai divenuto una realtà. La grande Esposizione Mondiale, svoltasi nel 1851 al Crystal Palace di Londra, aveva visto un serrato confronto tra la macchina per mietere presentata dal costruttore nordamericano Cyrus H. McCormick e quella proposta dallo scozzese Patrik Bell, caratterizzate da una diversa concezione operativa. La prima, trainata da due cavalli, montava la barra di taglio in posizione laterale, mentre la seconda, azionata a spinta, aveva il taglio frontale, evitando così che gli animali calpestassero il grano da recidere. Inoltre, mentre nella McCormick lo scarico delle spighe veniva effettuato a intervalli regolari da un operaio munito di rastrello, nella macchina di Bell era già applicato un primitivo nastro trasportatore che depositava il prodotto in modo continuo sul terreno. Successivamente le spighe, in entrambi i casi, andavano raccolte manualmente e legate in fasci per poi essere condotte in fattoria e trebbiate. I risultati delle prove in campo, effettuate in difficili condizioni atmosferiche e con il grano assai umido, avevano premiato nettamente la McCormick, prodotta oramai in centinaia di esemplari nella grande fabbrica di Chicago.

Mietitrice “Bell’s”. Nel 1827 lo scozzese Patrick Bell presenta un suo modello di mietitrice: l’avanzamento è a spinta e le spighe sono depositate a lato per mezzo di un rudimentale nastro trasportatore.

Mietitrice Virginia. E’ l’americano Cyrus McCormick a realizzare, a partire dal 1834, la mietitrice di maggior successo. Denominata Virginia Reaper fu costruita, con varie modifiche, in migliaia di esemplari.
Questa mietritrice andò così affermandosi in molte grandi aziende delle agricolture più avanzate del continente quali Gran Bretagna, Francia e paesi scandinavi. Questo successo spinse altri costruttori continentali a realizzare modelli analoghi. La macchina americana era stata anche modificata e adattata alle esigenze europee dai meccanici inglesi Burgess & Key che le avevano aggiunto un sistema di scarico automatico delle spighe, costituito da tre rulli a vite di Archimede, e questa soluzione aveva consentito di risparmiare un secondo operatore. Minor fortuna aveva arriso alla sorella inglese progettata da Patrick Bell, prodotta in vari esemplari dall’officina inglese di Garret ma diffusasi solo nelle campagne britanniche. Differenti tipologie di mietitrici erano state successivamente proposte da vari costruttori, in particolare americani e francesi. Alcune utilizzavano il principio della falciatrice-mietitrice, una macchina polivalente che poteva essere usata sia per la falciatura dei foraggi sia, con un apposito adattatore, per la mietitura, consentendo quindi un rapido ammortamento dell’investimento.

Burgess & Key. Il Barone Bettino Ricasoli, nel 1857, fece arrivare dall’Inghilterra due mietitrici McCormick modificate dagli inglesi Burgess & Key. Le collaudò con successo nella sua tenuta di Barbanella nella Maremma toscana.

Mietitrice automatica. L’evoluzione di maggior rilievo per le mietitrici fu l’applicazione di un sistema automatico di scarico dei covoni che riduceva il lavoro ad un solo operatore

Mietritrice automatica fotografata al lavoro
Arrivano in Italia le prime mietitrici
In Italia. Paese ancora politicamente diviso e con realtà agricole tra loro molto diverse, la situazione nelle campagne non appariva favorevole all’introduzione delle macchine. Si registrava la lodevole attività di personaggi illuminati, spesso riuniti in associazioni di proprietari agricoli, che operavano in alcune regioni come la Toscana, il Piemonte e la Campania, propagando l’uso di falciatrici e mietitrici. Quasi ovunque, però, l’abbondanza di manodopera a basso costo non giustificava economicamente la meccanizzazione dei principali lavori agricoli. Vi era poi una violenta opposizione da parte delle centinaia di migliaia di braccianti agricoli che, nella stagione estiva, venivano impiegati per la mietitura migrando da una regione all’altra della penisola. Faceva eccezione solo la trebbiatura dei cereali, operazione per la quale, a partire dalla metà del secolo, iniziarono a diffondersi macchine, principalmente di costruzione francese, tedesca e inglese, azionate da motori a vapore o dalla forza idraulica. L’eco delle innovazioni tecniche che si andavano affermando, soprattutto in Gran Bretagna, era giunta in Italia all’inizio degli anni Cinquanta, grazie anche alle accademie di agricoltura e all’impegno di alcuni grandi proprietari terrieri. Già nel 1854 il Regio Istituto di Incoraggiamento di Palermo importava dall’Inghilterra una mietitrice McCormick e, lo stesso anno, la sperimentava in un piccolo appezzamento. L’anno successivo venne preparato un campo ben seminato, in piano e non a solchi come era d’uso a quel tempo, e la macchina, trainata da due buoi, lavorò in modo egregio. La bontà dei risultati spinse un artigiano locale a costruirne alcuni esemplari per i proprietari terrieri dell’isola. Sempre in Sicilia, nel 1856, fu introdotta dal conte Tasca una falciatrice-mietitrice di Manny, macchina di costruzione francese, più economica e di minori prestazioni ma utilizzabile sia per la falciatura dei prati che per la mietitura. Un’altra mietitrice McCormick fu importata nel 1856 da una società di agronomi del Polesine.

Mietitrice “Mc Cormick”

Locandina pubblicitaria

Locandina pubblicitaria
Gli agrari veneti, però, non la trovarono adatta ai loro raccolti e così, l’anno successivo, questa macchina fu acquistata dai fratelli Giacomelli di Treviso, noti artigiani meccanici che da tempo costruivano varie macchine agricole tra cui trebbiatrici e locomobili a vapore. Ne fecero una copia, introducendo varie modifiche, e la provarono con successo. Proseguirono poi costruendone altri esemplari e, nel 1860, presentarono questa mietitrice alla grande Esposizione di Firenze. Sempre nel Veneto, la Società di Incoraggiamento di Padova premiò nel 1863, una mietitrice costruita dal meccanico Angelo Bertesso. Simile, nell’impostazione generale alla McCormick, era però più leggera e, in particolare, consentiva di variare agevolmente l’altezza di taglio, aspetto fondamentale per operare nei terreni all’epoca coltivati in modo irregolare.

Mietitrice “Avelin”

Falciatrice mietitrice “McCormick”
A sperimentare con metodi scientifici l’uso della mietitrice fu in particolare il barone Bettino Ricasoli, figura di prestigio nella Toscana del Granduca Leopoldo e futuro Primo Ministro dell’Italia Unita. Nel 1857, dopo aver compiuto due viaggi in Inghilterra per osservare al lavoro le nuove macchine, il barone acquistò due mietitrici McCormick, del modello modificato dai meccanici londinesi Burgess&Key. Le macchine arrivarono in bastimento a Castiglione della Pescaia, assieme a vari attrezzi per la lavorazione del terreno e per la semina, quest’ultimi necessari ad ottenere una idonea sistemazione delle coltivazioni. Negli anni seguenti queste mietitrici furono impiegate, con ottimi riscontri, nella tenuta di Barbanella, situata nella Maremma toscana presso Grosseto. La difficile situazione ambientale di quella zona, dove il clima malsano e la malaria provocavano di frequente malattie e morti tra braccianti impiegati nella mietitura, sollecitava prepotentemente l’uso delle macchine. I risultati di questa sperimentazione furono ampiamente descritti da Ricasoli in alcune lettere indirizzate all’Accademia dei Georgofili di Firenze. Successivamente, una seconda e nutrita spedizione di macchine agricole dall’Inghilterra a Grosseto comprendeva altre quattro mietitrici McCormick, facendo della provincia toscana la più avanzata a livello nazionale nella meccanizzazione agricola. Grazie a queste esperienze, con la partecipazione del Granduca Leopoldo II e di vari proprietari terrieri, si costituì in Toscana una società per la produzione di mietitrici che fu affidata al meccanico fiorentino Giovan Battista Cosimini, già affermato costruttore di locomobili e trebbiatrici.

Trebbia Ransomes

Renaud & Lotz

Mietilegatrice “Samuelson”
Il ruolo dei Depositi Governativi di macchine agrarie
Gli anni che seguirono furono caratterizzati in Italia da numerose mostre e concorsi in cui le nuove macchine, provenienti dal Nordamerica, dall’Inghilterra e dalla Francia, furono oggetto di prove e confronti nelle più varie situazioni ambientali e su diverse varietà di cereali. In questo quadro si avviò, nel 1870, un’iniziativa che oggi appare quanto di più avanzato si potesse proporre in campo agricolo. A cura del Ministero dell’Agricoltura vennero costruiti sedici Depositi Governativi di macchine agrarie, sparsi lungo tutta la penisola: Altamura, Cagliari, Caserta, Catania, Catanzaro, Chiavari, Chieti, Firenze, Forlì, Milano, Piacenza, Torino, Udine, Modena, Roma e Portici. Alcuni erano collocati presso i Comizi Agrari, altri presso le Regie Stazioni Agrarie, altri ancora nelle scuole tecniche agrarie. Questi depositi, diventati dopo un decennio oltre quaranta, mettevano a disposizione degli agricoltori e degli studenti di agraria un vasto assortimento dei principali mezzi meccanici e degli attrezzi destinati alle più svariate coltivazioni agricole. Il loro compito, quindi, era di sperimentare, propagandare e dare in prova ai privati quelle macchine ritenute indispensabili per una moderna coltivazione dei prodotti agricoli, per il miglioramento degli allevamenti e per lo sviluppo delle industrie agrarie. L’utilizzo delle macchine, acquistate con fondi governativi, era soggetto ad un apposito regolamento e ogni deposito era affidato ad un Direttore che, nominato dal Ministero, era responsabile della conservazione e diffusione delle macchine. La scelta dei mezzi da acquistare avveniva scegliendo quanto di meglio veniva proposto nelle grandi esposizioni internazionali e considerando i risultati ottenuti nei concorsi regionali, allora molto in voga e organizzati dai Comizi Agrari e dalle Cattedre Ambulanti di Agricoltura. La vivacità delle iniziative e il grande fermento attorno alle innovazioni agricole occupavano le pagine delle numerose riviste agricole che si pubblicavano in Italia alla fine dell’Ottocento, quali “Il Coltivatore” o “Il Giornale Agrario Toscano”.

Mietitrice Laverda. In Italia si diffusero in modo rilevante le falciatrici-mietitrici come questa Laverda fotografata in collaudo nel 1934

La mietilegatrice, con cui i covoni venivano automaticamente legati e scaricati a terra, ha rappresentato la massima evoluzione delle macchine da raccolto prima dell’avvento delle moderne mietitrebbie
Principali fornitori delle macchine, in gran parte di produzione estera, erano le grandi società di importazione come la Bale & Edwards, la Cantoni Krumm & C. , Whitmore & Grimaldi e Ferdinando Pistorius, con sede a Milano, e l’Agenzia Farina di Verona. Un’inchiesta commissionata dal Ministero, dopo cinque anni dalla costituzione dei Depositi, evidenziò l’interesse degli agricoltori per la possibilità di provare queste macchine e, fatto forse imprevisto, registrò anche un incremento dell’attività dei costruttori nazionali, stimolati evidentemente dal confronto con le produzioni provenienti dall’estero. Molte ed innegabili erano, comunque, le difficoltà incontrate nell’opera di diffusione della meccanica agricola: la tradizionale diffidenza degli agricoltori verso le novità; la varietà dei terreni e delle culture tipica del territorio italiano e quindi l’impossibilità di utilizzare lo stesso tipo di macchina, sia essa un aratro o una mietitrice, in situazioni così diverse; l’assenza di un sistema di credito agrario che agevolasse l’acquisto delle attrezzature. In ogni caso, per almeno un trentennio e fino alla vigilia della Prima Guerra mondiale, l’azione dei Depositi fu importante per la diffusione della meccanizzazione agricola del nostro Paese. E queste istituzioni pubbliche ebbero un ruolo essenziale anche nell’istruzione dei giovani agricoltori che, nelle numerose scuole agrarie, potevano venire a contatto con le più recenti realizzazioni della meccanica. Con il progressivo affermarsi della meccanizzazione e la cronica carenza dei fondi messi a disposizione dal Ministero, mano a mano i Depositi si ridussero a polverosi magazzini di macchine ormai tecnicamente superate, tanto che, nel 1923, l’allora Ministro dell’ Agricoltura De Capitani, in risposta ad una interrogazione parlamentare, ne decretava di fatto la fine proponendone la soppressione “in quanto non rispondono più agli scopi per cui furono istituiti e la mancanza di mezzi sufficienti rende impossibile anche una adeguata custodia e conservazione delle macchine”.

Mietitrice “Hussey”

Mietitrice Laverda con buoi
Le Macchine presenti nei Depositi Governativi
Scorrendo il lungo elenco delle macchine che costituivano la dotazione dei vari Depositi Governativi di macchine agrarie, pubblicato nel 1883, si può ricavare un quadro preciso dei marchi e dei modelli disponibili sul mercato nazionale. Sono presenti molti nomi illustri dell’industria mondiale dell’epoca, soprattutto inglese, tedesca e nordamericana, ma anche alcuni costruttori nazionali oggi ormai dimenticati come i “Fratelli Mure” di Torino, noti per i loro trebbiatoi e vagli separatori, il toscano Antonio Cosimini, con fabbrica a Grosseto, pioniera nella costruzione di locomobili e trebbiatrici e ancora il conte Eugenio Cantoni che, a Milano, aveva rilevato la fabbrica di Giovanni Rummele, attiva già dal 1866 e gli inglesi Bale & Edwards che da tempo operavano in Italia come importatori e costruttori e che, all’inizio del Novecento, cederanno l’azienda al milanese Ing. Colorni. E’ Milano, quindi, il principale centro di diffusione delle macchine agricole, almeno fino alla costituzione, nella città di Piacenza, della Federazione dei Consorzi Agrari. Significativa è la presenza di importanti costruttori esteri che, all’epoca, offrivano una vasta gamma di macchine per l’agricoltura, come l’inglese Ransomes, Sims & Jefferies, rappresentata dal milanese Ferdinando Pistorius, e la tedesca Eckert. Molti anche i modelli prestigiosi di locomobili e trebbiatrici messi a disposizione, come Marshall, Garret e Hornsby, anch’essi di produzione d’oltre Manica. Infine, compaiono i principali costruttori americani di macchine da raccolto, oramai affermatisi a livello mondiale, come McCormick, Samuelson e Wood. Per la mietitura, nel catalogo dei Depositi, troviamo le falciatrici-mietitrici Wood, Howard, Samuelson, Sprague e le mietitrici semplici Laurent-Millet, Peltier, McCormick, Samuelson, Wood, Hornsby. Per la successiva trebbiatura dei cereali erano disponibili varie trebbiatrici a posta fissa, di diverse dimensioni e prestazioni: Mure, Ransomes, Lanz, Pinet, Epple, Eckert, Cosimini, Bale & Edwards, Marshall, Gujoni, abbinate alle locomobili a vapore necessarie a muoverle e prodotte da Jeffery, Brown & May, Hornsby, Cosimini.

Nel 1938 venne presentata la prima mietilegatrice di costruzione nazionale, la Laverda ML 6, in grado di contrastare l’egemonia dei modelli di importazione

ML 6 in coppia
Dalla mietitrice alla mietitrebbia
In Italia la mietitura con le macchine, mietitrici semplici, e in seguito, mietilegatrici, in grado quest’ultime di effettuare anche la legatura dei covoni, resterà, fino al primo dopoguerra, limitata alle grandi aziende agricole delle principali aree cerealicole del paese, come la Pianura Padana, l’Agro Romano o il Tavoliere delle Puglie. L’introduzione massiccia delle falciatrici a traino animale trasformabili in mietitrici, fenomeno tipicamente italiano supportato dall’iniziativa di alcuni grandi costruttori nazionali come Pietro Laverda e OMI Reggiane, consentì, negli anni Trenta, anche a molte piccole e medie aziende una prima, seppur limitata, meccanizzazione. Solo nel 1938 venne presentata la prima mietilegatrice di costruzione nazionale, la Laverda ML 6, in grado di contrastare l’egemonia dei modelli di importazione. Resta il fatto che, alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, a onta degli sforzi condotti dal regime fascista per incrementare la produzione cerealicola, la superficie di seminativi raccolta meccanicamente non superava il 15-20%. A partire dagli anni Cinquanta grazie anche alle riforme agrarie, la diffusione delle mietilegatrici interessò l’intero territorio nazionale, facilitata dall’offerta di macchine adatte alla raccolta di grani precoci, coltivati soprattutto nelle zone collinari. Tra queste primeggiava la Laverda ML5 BR, in assoluto la macchina più venduta in Italia grazie anche alla capillare rete commerciale dei Consorzi Agrari. Nei decenni successivi, l’affermazione delle moderne mietitrebbiatrici semoventi, in grado di raccogliere e contemporaneamente pulire il grano con il minimo impiego di manodopera, libererà definitivamente l’agricoltore dalla dura fatica della mietitura.

M 60 in lavoro

M 60 con sacchi
Le illustrazioni e le fotografie provengono da:
– Archivio Storico “Pietro Laverda” – Breganze (VI) – www.laverdastoria.com
– Biblioteca Internazionale “La Vigna”, Vicenza, www.lavigna.it
per gentile concessione.