7.000 anni fa nasce la Treggia, poi arriva Ötzi “l’uomo dei ghiacci”

Il Professore e Antropologo GIOVANNI CASELLI “abilissimo” disegnatore, autore di questo spaccato di vita preistorica
7.000 ANNI FA IL PRIMO MEZZO DI TRASPORTO A TRAZIONE ANIMALE
LA TREGGIA o SLITTA ha rappresentato per l’uomo preistorico il primo attrezzo per faticare meno: prima con la forza muscolare, poi con gli animali, ha accompagnato l’uomo – nel bene e nel male – in un cammino durato fino ai primi anni del ‘900.
IL MEZZO
Le immagini, o meglio i disegni, sono eloquenti. Per una serie di motivi collegati alla praticità ed a fare meno fatica possibile, l’uomo della preistoria iniziò a costruirsi questo attrezzo polivalente che nei terreni pianeggianti aveva le funzioni di Treggia per un certo numero di mesi all’anno per poi trasformarsi in slitta all’arrivo delle nevi e su terreni paludosi. Dal giorno in cui fu inventato, questo attrezzo aveva come forza-motrice le braccia dell’uomo che tramite funi costruite con pelli di animale veniva trainato per scivolamento e caricato con materiali o cacciagione di vario tipo.
Questo sistema di trasporto per “scivolamento” si protrasse nel tempo fino a quando l’uomo contadino e allevatore iniziò l’addomesticamento degli animali. In base a studi e ricerche fatte da antropologi di tutto il mondo, pare che i primi tre animali utilizzati per il traino fossero il bue, l’asino e l’onagro (asino selvatico asiatico). Il primo di tutti pare sia stato il Bos primigenius (uro)
IL BUE, COMPAGNO DI MILLE FATICHE
Il Bue domestico (Bos Taurus) discende dal Bos primigenius, che, originario dell’Asia, si diffuse in Europa. Le tracce più antiche della sua presenza sono state scoperte in Tessaglia e Macedonia e risalgono rispettivamente al 6.500 a.C. e 6.100 a.C. I “bovini dal dorso piatto” erano di due varietà: a corna lunghe e a corna corte. Tracce di bovini a corna lunghe sono state rinvenute a Catal Huyuk e risalgono al 5.800 a.C. , ciò significa che questi bovini furono addomesticati nel settimo millennio. In Iran si diffusero intorno al 6.000 a.C., in Egitto durante la seconda metà del 5°millennio e nella Valle dell’Indo nel 2.700 a.C. circa.

Nella antichissima scultura in alto possiamo vedere con grande esattezza gli antichi buoi dalle corna lunghe con le primissime ruote utilizzate dall’uomo. Nella scultura sotto il particolare della ruota di un carro.
TIPOLOGIA DI ATTACCO
In relazione a disegni e sculture a noi pervenute, accompagnate da considerazioni tecniche specifiche, possiamo affermare che l’attacco standard fatto con finimenti in cuoio è risultato nell’antichità molto complesso, e solo verso la metà dell’Impero Romano si sono visti i primi carretti trainati da un cavallo o un asino con finimenti sufficientemente idonei. Si suppone che questa lenta evoluzione del finimento sia da imputarsi al fatto che l’animale doveva fare molta fatica (giogo+buoi) o a causa delle innumerevoli guerre, dove se anche faticavano o sforzavano un po’, aggiogati a quattro per volta (vedi scultura di carro) distribuivano meglio la fatica.

Carro di Tell Agrab datato 2700 a.C. Rappresenta la testimonianza più antica e dettagliata che ritrae una quadriga di Onagri e le ruote del carro con i cerchioni dentati. Molto particolare (e misterioso) il tipo di attacco.
A proposito di fatica, ritorniamo al nostro uomo preistorico che come abbiamo visto ora nel 7.000 a.C. dispone della treggia/slitta e riesce ad addomesticare i primi animali per il suo nutrimento e per aiutarlo nei lavori dei campi. Il passo è breve e ben presto mette a punto uno degli attrezzi più antichi dell’umanità: il giogo. Grazie a questa tecnica si potevano attaccare due buoi contemporaneamente e tramite il giogo che esercitava il massimo sforzo sulle robuste spalle dei buoi si creò una delle più affidabili e perfette macchine a trazione animale che la storia ricordi.

La foto che vediamo rappresenta una treggia con due giovani agricoltori che si recano al lavoro. Questa rarissima fotografia insieme ad alcune altre che siamo riusciti a reperire, rappresentano testimonianze uniche di come la treggia sia riuscita ad essere utile all’uomo anche dopo migliaia di anni dalla sua invenzione.

Al momento tra gli innumerevoli studi fatti da esperti di tutto il mondo, pare che il disegno sopra riprodotto rappresenti la teoria più attendibile sull’invenzione della ruota

Un’altra rarissima immagine di una Treggia utilizzata nel Casentino fino ai primi anni del ‘900
Buoi, legno e pellame, ecco i materiali usati dai nostri antenati per la costruzione di questo mezzo che però era tremendamente lento a causa di una mancanza non da poco: la ruota. Questo oggetto “rotondeggiante” che era destinato a stravolgere il corso degli eventi dell’umanità, nel bene e come abitudine oramai consolidata anche nel male, scaturì dalla mente umana nel 2.500 a.C.
Prima di entrare in alcuni dettagli interessanti e curiosi, riassumiamo i vari passaggi dell’antico mezzo; dall’anno x? fino al 7.000 a.C. slitta/treggia trainata a braccia dall’uomo; parte poi l’addomesticamento del Bue e dal 6.500 a.C. fino al 2.500 a.C. la treggia/slitta viene perfezionata ed utilizzata per lavori prevalentemente agricoli. Nel 2.500 a.C. con l’invenzione della ruota, la treggia + le ruote si trasformano in carro!
Abbiamo appena parlato della Treggia che si spostava per “scivolamento” e che intorno al 2500 a.C. si trasformò in carro con l’applicazione della rivoluzionaria invenzione: la RUOTA. Nella ricostruzione in alto possiamo vedere un modello particolarissimo di treggia + treggiolo con l’applicazione di due piccole ruote nella parte posteriore. Anche questo modello di treggia è stato ritrovato sull’Appennino Tosco Emiliano e presenta una interessante caratteristica tecnica, innovativa e ingegnosa per quei tempi. Il modello sopra descritto era utilizzato per il trasporto di carichi pesanti (tronchi di albero o simili) e naturalmente non esistevano freni di nessun tipo. Dovendo servirsi solo ed unicamente della forza dei buoi ecco l’utilità delle due piccole ruote che in presenza di terreni abbastanza compatti, agevolavano molto lo scorrimento sul terreno, mentre durante le discese, anche ripide e a pieno carico, la treggia si appoggiava al terreno con forza nella parte anteriore sprovvista di ruote aumentando così l’attrito sul terreno e favorendo moltissimo la frenata, togliendo di conseguenza tanto peso dalle spalle dei buoi impegnati a sostenere il carico, mentre altri uomini a mezzo di funi collaboravano nella parte posteriore della treggia.
E L’UOMO COME ERA MESSO?
In questo genere di ricerche dove la scienza nulla può a distanza di migliaia di anni, dove quasi tutte le tracce si sono dissolte nel terreno, resta sempre viva la componente “fortuna” che interviene per aiutarci a scoprire le nostre antichissime radici. La componente fortuna arrivò circa 20 anni fa, ma … questa storia la lasciamo raccontare a persone molto più esperte di noi.
Dal Museo Archeologico dell’Alto Adige, dalla Direttrice Angelika Fleckinger e da chi ci ha gentilmente passato testi e foto, Melitta Franceschini , Vi presentiamo :
Ötzi, l’Uomo venuto dal ghiaccio

MODELLO DI ASCIA DA CACCIA PRIMITIVA
Immagini gent. conc. da Museo Archeologico dell’Alto Adige – www.iceman.it
20 anni fa, sul ghiacciaio delle Alpi Venoste, una coppia di escursionisti rinvenne una mummia, rendendosi protagonista di una scoperta sensazionale. A seguire il recupero di Ötzi, l’Uomo venuto dal ghiaccio, conservatosi in ottimo stato per 5.300 anni insieme al vestiario e all’equipaggiamento, furono curiosi, media e scienziati da tutto il mondo. Nel frattempo, oltre 3 milioni di persone hanno visitato il Museo Archeologico dell’Alto Adige, inaugurato il 28 marzo del 1998, per ammirare da vicino la mummia dell’età del rame e i reperti con essa rinvenuti. Due anni fa, a 20 anni dalla scoperta, il museo ha deciso di ampliare il percorso espositivo dedicato all’Uomo venuto dal ghiaccio, sviluppandolo su 3 piani. La mostra approfondisce il tema dell’ambiente e delle condizioni di vita dell’epoca, gli ultimi risultati delle ricerche scientifiche condotte sulla mummia (da quelle sul DNA fino a quelle forensiche) e la realtà mediatica di cui è ancora protagonista. Uno spazio è infine dedicato al tema della fiction, del merchandising e alle curiosità.

A sinistra un momento delle fasi del ritrovamento, a destra il corpo mummificato di Ötzi esposto al Museo Archeologico dell’Alto Adige – www.iceman.it
L’unicità della mummia venuta dai ghiacci è riconducibile all’ottimo stato di conservazione di un uomo, strappato alla vita nel pieno della sua esistenza, nonché dei capi di vestiario e degli strumenti di cui si serviva. Per la prima volta nella storia della medicina e dell’archeologia, è stato possibile condurre studi anatomici su un cadavere risalente al 4° millennio a. C., esaminando nel dettaglio l’equipaggiamento e l’abbigliamento utilizzati all’epoca. Le ricerche condotte sui reperti, frutto di anni di studio, hanno permesso di ricostruire, mediante metodologie all’avanguardia, uno spaccato inedito della vita quotidiana di un uomo dell’età della pietra dell’ambiente in cui viveva e la sua straordinaria capacità di adattarvisi, sfruttando il più possibile ciò che era in grado di offrire. Ma se con il passare del tempo la scoperta si arricchisce di dettagli inediti, nuovi interrogativi proiettano la celebre mummia in prima pagina.
Immagini gent. conc. da Museo Archeologico dell’Alto Adige – www.iceman.it

Semplicemente incredibile poter vedere “dal vivo” come era fatto un essere umano di 5.000 anni fa!
I più recenti studi del team di ricercatrici e ricercatori, coordinato da Albert Zink, direttore dell’Istituto per le Mummie e l’Iceman dell’Accademia Europea di Bolzano (EURAC), hanno svelato la predisposizione genetica di Ötzi a patologie cardio-circolatorie, come confermato dalle calcificazioni vascolari. Inoltre, le prime analisi del genoma hanno rilevato tracce di borreliosi, trasmessa dalle zecche, evidenziando anche un’intolleranza al lattosio. Infine, gli esami condotti attestano il gruppo sanguigno zero dell’Uomo venuto dai ghiacci, nonché il colore castano di occhi e capelli.
Immagini gent. conc. da Museo Archeologico dell’Alto Adige – www.iceman.it

Osservando questi reperti assolutamente “originali”, possiamo vedere il livello di abilità che c’era nella lavorazione di corde, lacci e funi che senz’altro servivano anche per tenere insieme e rendere più robusta la TREGGIA
Gli studi relativi all’origine genetica, invece, svelano che gli antenati di Ötzi sono emigrati dal Vicino Oriente, a seguito della diffusione di agricoltura e allevamento. Dalle tracce emergono anche le sue inequivocabili radici mitteleuropee: il patrimonio ereditario materno si ritrova tuttora nei ceppi delle popolazioni ladine delle Dolomiti altoatesine, mentre i geni paterni rivelano l’appartenenza a un aplogruppo un tempo ampiamente diffuso in Europa, oggi presente solo in poche aree isolate, come Sardegna e Corsica.
Immagini gent. conc. da Museo Archeologico dell’Alto Adige – www.iceman.it
Le ultime scoperte relative all’aspetto fisico, alla popolazione d’origine e alla predisposizione a determinate patologie della mummia sono state pubblicate sulla rivista specializzata “Nature Communications” a inizio marzo 2012.
Di media statura, esile ma muscoloso, viso scarno e affilato, barba incolta e pelle cotta dal sole: questo, stando alla ricostruzione effettuata nel 2011, era l’aspetto di Ötzi che, socchiudendo leggermente gli occhi marroni, osserva i visitatori volgendo il suo sguardo vigile e incuriosito sopra la spalla sinistra. Grazie alle immagini in 3D della scatola cranica, nonché alle radiografie e alla tomografia computerizzata, gli artisti olandesi Adrie e Alfons Kennis, al termine di un lavoro di ricostruzione durato 5 mesi, hanno ricreato l’aspetto che la mummia aveva 5.300 anni fa, catturando un’istantanea dell’uomo dell’età del rame, a pochi giorni dalla sua morte.
Immagini gent. conc. da Museo Archeologico dell’Alto Adige – www.iceman.it
In occasione della mostra, la direttrice del Museo Archeologico dell’Alto Adige, Angelika Fleckinger, ha curato il catalogo “Ötzi 2.0 – Una mummia tra scienza e mito”, contenente, tra gli altri, i contributi di curatori, scienziati, giornalisti e collaboratrici del museo, rendendo note al pubblico una serie di appassionanti curiosità sinora mai svelate. Il volume è stato pubblicato in lingua italiana e tedesca per l’Italia da Folio Editore (Vienna/Bolzano) e in tedesco dalla Theiss Verlag (Stoccarda). Le copie per la recensione possono essere richieste presso la casa editrice.

Ecco qui in alto il disegno del Prof. Giovanni Caselli di un modello di TREGGIA che come si può notare, non presenta nessun tipo di “legatura” essendo assemblata con legni incastrati tra di loro
LA TREGGIA QUANDO SCOMPARVE ?
E’ risaputo che intorno al 2.000 a.C. le civiltà agricole della Valle dell’Indo iniziarono a spostarsi verso il Continente Europeo a bordo di carri, più o meno veloci a seconda se vi erano attaccati dei buoi o degli onagri. A rigor di logica l’antichissimo e rudimentale mezzo avrebbe dovuto essere messo nel “dimenticatoio”, invece …
IL RITROVAMENTO DI UNA TREGGIA NEL “CASENTINO”
Sentiamo cosa ha da raccontare in proposito uno dei più noti Antropologi Europei, il Prof. Giovanni Caselli che nel 1975 sostenne una tesi sulla treggia. A fare scattare la molla della “ricerca” nel Prof. Caselli, fu il ritrovamento in Toscana (Casentino) di una treggia perfettamente identica ad un’altra ritrovata però … in Crimea. Dal giorno della tesi sulla treggia il mistero delle “due tregge” si è protratto per 37 anni fino a quando …

L’ANTROPOLOGO Prof. GIOVANNI CASELLI
G.Caselli ”Il mistero dell’unicità di questo veicolo ed il valore delle mie argomentazioni scientifiche in proposito è stato confermato nel 2012 grazie ad uno studio compiuto presso l’Università di Bologna da uno studioso Giapponese, prematuramente scomparso. Lo studio riguardava la schiavitù a Firenze nel tardo Medioevo. Vi erano, e non solo a Firenze, schiavi Tartari importati da Genovesi e Veneziani dalla Crimea. Gli schiavi non potevano essere Cristiani e quindi si importavano i Tartari che avevano un aspetto gradevole; uomini biondi con occhi celesti e donne di bell’aspetto. Mentre le donne venivano impiegate come serve, domestiche e concubine presso mercanti e bottegai, gli uomini venivano impiegati nei campi durante il periodo di diffusione della mezzadria in Toscana. Occorrevano uomini che sapessero coltivare, ed i Tartari della Crimea che coltivavano la vite sulle colline della Crimea, riuscirono perfettamente ad integrarsi. Grazie alle loro capacità, vennero utilizzati sull’Appennino Tosco Emiliano (Parmense e Lunigiana) nel Mugello, Casentino e Chianti. Naturalmente questi agricoltori Tartari per lavorare iniziarono a costruirsi attrezzi e mezzi di lavoro identici e con le stesse tecniche costruttive imparate nelle loro terre d’origine, ecco la spiegazione plausibile del perché la Treggia rinvenuta in Crimea era identica a quella ritrovata in Toscana.”
TREGGIA e TREGGIOLO ALL’EREMO DI CAMALDOLI
Continuiamo il nostro viaggio alla ricerca della treggia che pare proprio non voglia smettere di circolare. Ci lasciamo alle spalle le tregge dei Tartari-coltivatori nel tardo medioevo e ci spostiamo di poco per arrivare a Camaldoli (Arezzo). In questo luogo nel 1027 l’eremita Pietro Dagnino, discepolo di Romualdo di Ravenna fonda l’Eremo di Camaldoli. L’eremo era completamente circondato da boschi e, anche per motivi di sopravvivenza, venne avviata dai Monaci una attività di vendita del legname. A partire dal 1458 si hanno notizie certe di una vera e propria organizzazione commerciale Camaldolese per la vendita del legname. Anche qui in questi spazi incontaminati, dove la natura trionfava (come migliaia di anni prima) a farla da padrona nei trasporti ecco la treggia.

In alto un’altra rarissima testimonianza fotografica, alcuni Monaci Camaldolesi partono probabilmente per andare a fare provviste su di una treggia trainata da due buoi che, stando alle condizioni del terreno visibili, offriva molta più sicurezza di un “attuale SUV o 4 per 4”
L’antica treggia ed il buon treggiolo continuarono ad essere utilizzati fino ai primi decenni del 1800, poi una migliore viabilità ed i crescenti costi della manodopera resero più conveniente utilizzare il “Baroccio”. Leggiamo nei registri dei Monaci “Il carro era a quattro rote con lo sterzo e stante l’aiuto della martinicca si evita il peso sul collo dei bovj”
I
l carro ben presto soppiantò la Treggia, purtroppo i “poveri bovi” dovranno attendere altri 100 anni prima di sospendere quelle tremende fatiche!
LA TREGGIA DI MONTOVOLO (BO) NEL 1939
Anche se pare impossibile, una treggia perfettamente funzionante era normalmente in uso sull’Appennino Tosco Emiliano, nel caso che ora vedremo nel versante bolognese. Bisogna dare atto che le teorie del Prof. Caselli rispondono appieno alla realtà dei fatti, certificado l’introduzione di questo mezzo in Emilia e Toscana per opera degli schiavi Tartari. Va poi ricordato che fino al 1780 le strade dell’Appennino Tosco Emiliano erano volutamente accidentate per la politica di difesa militare del Granducato di Toscana. Grazie a Pietro Leopoldo di Lorena si diede inizio alla costruzione delle prime strade “carrozzabili” solo nel 1790.
LA TREGGIA RACCONTATA DA UN TESTIMONE OCULARE ?
Un racconto ai confini della realtà ma … realmente accaduto. Il testimone è il Sig. Dionigi Ruggeri e nella foto che vediamo è ritratto ad un solo anno di vita in braccio a Mamma. Ora sentiamo le motivazioni per l’utilizzo di quel mezzo nel 1939, quando calessi e carrozze erano di uso diffuso.
D. Ruggeri ” A quei tempi la mia era una famiglia benestante, e come mezzi di trasporto ne avevamo più di uno, dai calessi alle carrozze e naturalmente pure una treggia. Perché la treggia? Oggi siamo abituati a vedere i sentieri di montagna battuti e ben livellati, ma una volta non era così, bastava un mese di siccità che dalla sera alla mattina si aprivano delle crepe nel terreno dove se vi entrava una ruota di carro o carrozza ne usciva completamente distrutta. Stessa cosa quando si incontravano zone palustri dove con acqua e fango le ruote sprofondavano nella melma ed era impossibile proseguire il cammino. Ebbene, può sembrare strano, ma la treggia con la sua struttura particolare, unita alla poderosa forza della coppia di buoi, risolveva brillantemente tutti i problemi.

Nella foto a sinistra il Sig. Dionigi Ruggeri, in quella a destra al centro con il cappellino bianco ed il viso paffutello sempre il Sig. Dionigi a un solo anno di vita
Veniamo alla fotografia, scattata a Montovolo (BO) nel 1939. Era una bella giornata primaverile, io avevo da poco compiuto il mio primo anno di vita, e per festeggiare l’evento ci recammo con tutta la famiglia, nonna inclusa, a fare visita a parenti. Anche se i chilometri non erano eccessivi, resta il fatto che sopra quelle montagne per donne anziane e bambini piccoli la treggia con il suo comodo cestone imbottito di panno, era un comodissimo mezzo di trasporto.”

Qui sopra un’altra rara immagine di una treggia fotografata ai confini con la Svizzera negli anni ’30

Anche in questo modello datato 2.000 a.C. possiamo notare come il telaio e le caratteristiche della treggia restino tali e quali solo con l’aggiunta delle ruote

In questi disegni del Prof. Giovanni Caselli possiamo notare sull’intelaiatura standard della Treggia vari modelli di carri
CONSIDERAZIONI TECNICHE SU BUOI ASINI o MULI ONAGRI
E’ documentato che i commercianti dell’Alta Mesopotamia utilizzavano per le grandi distanze carovane di asini che potevano caricare circa 90 kg per asino, mentre per le brevi distanze utilizzavano i carri con i buoi (1 carro + 2 buoi portava 600 kg). Dai testi paleo-Babilonesi apprendiamo che dopo la mietitura, il Re era costretto a requisire tutti i pochi carri da trasporto esistenti per convogliare il raccolto sulle rive dei fiumi da dove veniva poi imbarcato alla volta dei magazzini. Discorso a parte per l’antenato del cavallo (ONAGRO) perchè emerge da tantissimi testi consultati che veniva impiegato per la sua velocità attaccato a carri da guerra che dovevano essere veloci e leggeri. Non avendo per tanti anni messo a punto dei finimenti validi e funzionali, qualora si trovasse a trainare pesi esagerati era in difficoltà per via dei pessimi finimenti che gli comprimevano le vie respiratorie fino al soffocamento.

Siamo a Savarna (RA) nel Museo Etnico Sgurì di Romano Segurini e la slitta che vediamo in bella mostra davanti alla “Capanna” di canne testimonia che questa invenzione geniale è servita all’uomo per tanto tempo, quanto? ad occhio e croce dal 7.000 a.C. fino al 1920, fate Voi i conti

Nella foto in alto a destra il Sig. Romano Segurini e contro il muro del Museo Etnico un’altro modello di slitta
Per info. www.museoetnosguri.it
Eccoci al momento dei “Ringraziamenti”, è ovvio che tutto il materiale fotografico e le documentazioni storiche esibite sono il frutto di ricerche e studi effettuati da appassionati studiosi e ricercatori che hanno dedicato ore, giorni, mesi e anni della loro vita privata per “donare cultura” agli altri, pagandosi le spese di tasca propria (80% dei casi accertati). Noi della Redazione di C.& C. li ringraziamo e ci auguriamo che l’antica profezia dei Maya si avveri il più presto possibile.
PROFEZIA tradotta dai nostri esperti della Redazione “Arriverà la fine di un mondo dove le masse di incapaci abilmente camuffate da persone in gamba verranno smascherate da un esercito di cittadini abili che daranno vita ad un nuovo mondo dove trionferà il merito”
Ringraziamo il Museo Archeologico dell’Alto Adige
Ringraziamo l’antropologo, Prof. Giovanni Caselli
Si ringrazia per la collaborazione la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Per info. www.archiginnasio.it
Un grazie ai Sig.ri Carlo Urbinati e Raoul Romano autori del trattato storico ” Foresta e Monaci di Camaldoli “.
Ringraziamo il Sig. Ivo Baldisseri sempre disponibile con la sua ricca e assortita Biblioteca Storica delle sue collezioni private.
Per informazioni o dettagli sulla treggia, sempre sul nostro sito (C.&C.) alla Categoria TRASPORTI a TRAZIONE ANIMALE potrete trovare ulteriori notizie.